L’ambiente di lavoro e la sicurezza nel vissuto quotidiano di Dario Ianneci
Insegno latino e greco al liceo. Il mio lavoro, la mia passione, il mio piacere, è fare lezione. Condividere quello che mi pare essere utile, bello, interessante con i ragazzi che ho di fronte, ogni giorno.
Per fare lezione è senz’altro cosa buona avere un ambiente accogliente, tranquillo, confortevole. E certamente sicuro. Sicuro vuol dire privo di rischi di qualsiasi tipo e facile da usare. La “sicurezza” di un ambiente, di vita, di lavoro, di svago, di trasporto, è un concetto giuridico, ma è anche una categoria culturale che non sì è ancora costruita in maniera solida e diffusa in Italia, tanto meno a scuola. Del resto è ovvio che occorrono anni per modificare il pensiero, gli atteggiamenti, le azioni degli uomini.
La sicurezza non è stata una cosa scontata fino a qualche decennio fa neppure nel mondo del lavoro. Il lavoro, infatti, come la guerra, implicava per sua stessa natura dei “rischi”, inevitabili. Il lavoro era fatica e battaglia e pericolo. Se uno perdeva un braccio lavorando o restava zoppo perché la gamba era stata schiacciata da una macina, era cosa dolorosa e rovinosa, ma da accettarsi fatalisticamente come si accetta in guerra il rischio di essere feriti o di rimanere uccisi. La “tutela” della persona, del lavoratore non esisteva come categoria culturale prima ancora che come fatto giuridico. L’unica “tutela” auspicabile era il prodigioso intervento di qualche santo. Del resto i più celebri luoghi di culto del mondo sono ricchi di gallerie con ex voto che raffigurano in massima parte interventi prodigiosi proprio in battaglia o sul lavoro. Solo la Madonna o i santi potevano tutelare gli uomini mentre lavoravano per sé e per il bene comune.
La scuola, poi, non era neppure percepita come un vero e proprio “luogo di lavoro”. Anzi la scuola era l’alternativa al lavoro: o il lavoro, con la sua durezza ed i suoi rischi, appunto, inevitabili, o la scuola. Il mestiere del professore, della maestra, (ma anche la condizione di scolaro e di studente) era tutto un programma di tranquillità, al riparo dai rischi di qualsiasi tipo. Innanzitutto si stava seduti, in cattedra o nei banchi, nel chiuso di una stanza, riguardati dalle intemperie e dal freddo. Non c’erano rischi di bagnarsi, di ammalarsi, di essere feriti. Non c’erano macchine, né motori, né movimenti né lame né apparecchiature che avrebbero potuto far danno. Scivolare o cadere per una spinta era cosa che doveva essere impedita dalla “disciplina” che bisognava imporre a tutti con rigore. La prevenzione era un concetto di là da venire.
Per lunghi anni nella scuola l’ambiente di lavoro non era poi molto diverso da quello previsto dal “Regolamento” della Pubblica Istruzione del 1860:
“Ogni scuola dovrà avere: 1°: banchi in numero sufficiente per tutti gli allievi – 2°: tavola con cassetto a chiave e seggiola per il Maestro – 3°: Armadio chiuso a chiave per riporre libri, scritti, ecc. – 4°: stufa pel riscaldamento della stanza – 5°: calamaio per il Maestro e calamai infissi per gli allievi – 6°: un quadro rappresentante le unità fondamentali e le misure effettive del sistema metrico decimale – 7°: un crocefisso – 8°: un ritratto del Re”
Non fa meraviglia che ancora oggi non sempre, non tutti, e non tutti allo stesso modo, si percepisca la scuola come “luogo di lavoro” e quindi come un ambiente in cui ogni cosa debba essere rigorosamente soggetta alla disciplina della sicurezza e alla prevenzione.
Oggi però tutto nella scuola è cambiato. La scuola è un ambiente complesso. Le stesse aule sono ormai veri e propri “laboratori” attrezzati di tutto punto per svolgere attività complesse che richiede una cultura appunto della prevenzione, della logistica, della sicurezza a scuola la cui necessità un docente non aveva mai avvertito prima. E su questo piano che bisogna far maturare una nuova coscienza ed una nuova sensibilità. Deve mutare la “percezione” del valore della sicurezza che dovrà diventare, come la nozione di “igiene” una nozione comune nella sensibilità di tutti.
Forse il primo segno del cambiamento su questo piano possiamo coglierlo quando per legge furono rimosse tutte le “pedane” su cui troneggiava, alta, la cattedra del docente. Più che conseguenza del democraticismo sessantottino, fu una semplice norma di sicurezza a confinare nella soffitta dei ricordi la pedana del maestro. Si voleva evitare che qualcuno, cadendo, battesse con la testa sugli spigoli acuti della pedana e si facesse male. Ecco questo mi pare possa essere preso come momento di inizio della mutazione culturale in tema di sicurezza nella vita scolastica quotidiana.
Oggi l’aula di lezione è un ambiente di lavoro che presenta una ridda di apparati tecnologici. Se vogliamo prendere in considerazione soltanto i licei (senza considerare gli istituti tecnici e professionali) al posto della vecchia “seggiola” del maestro, e relativa pedana, abbiamo vere e proprie scrivanie con cavi passanti, computer, scanner, document camera, webradio, prese elettriche, lavagne LIM, ecc.
Ma queste strumenti didattici sono state inseriti perlopiù in vecchi aule predisposte – quasi come da “Regolamento 1860” – solo per i banchi e la “seggiola” del Maestro. Impianti, componenti e logistica generale quasi mai sono adeguate. Ecco allora, nell’impossibilità di fare interventi di ristrutturazione, le soluzioni tampone o la vecchia arte di arrangiarsi: cavi volanti, prese multiple, doppie prese per collegare il tavolino pc alle prese di corrente o per “agganciare” lo scanner alla LIM… Tutte soluzioni, se analizzate in dettaglio, contrarie alle norme sulla sicurezza. Eppure non ci sono molte alternative per un docente che voglia fare lezione.
Se voglio beneficiare delle strabilianti potenzialità delle tecnologie che mi hanno portato in aula, devo pur usarle in maniera rapida, diretta, immediata, anche se devo vedere cavi volanti o macchie d’acqua pericolosamente vicine alla presa elettrica. Se voglio commentare insieme ai ragazzi una lezione di Vernant sulla tragedia greca in Youtube, non riesco ad aspettare la “messa a norma” di un cavo nell’aula per cui non si sa quanto tempo sarà necessario. Non fa niente, allora, se i cavi sono a vista e non sotto traccia, se occorrono due prolunghe elettriche per collegare il computer che sta a destra con la LIM che si trova sulla parete di fondo. Purché riesca a fare la mia lezione, va bene. Per oggi va bene. Ed è andata bene. Nessuno è inciampato nei cavi, nessuno si è fatto male.
Il docente, il fondo, anche se sa bene che è “preposto alla sicurezza” anche lui, sempre, nell’ambiente in cui lavora, è un po’ fatalista: a scuola non può accadere nulla di pericoloso. Il docente ha una sola premura, in fondo: la lezione, il messaggio, la trasmissione agli altri di un sapere codificato. Risolvere tutti i problemi del comfort e della sicurezza quotidiana, non è nel suo orizzonte. Dovrebbero essere in prima istanza gli enti pubblici, a cui è preposta la progettazione, la cura, la manutenzione degli spazi del fare scuola, a fornire le condizioni per un lavoro senza rischi per nessuno. Ma qui sappiamo come stanno le cose: inadempienze, mancanza di fondi, mancanza di personale, difficoltà gestionali, ecc. Un intrico da cui non se ne esce facilmente. Allora, ancora una volta, non resta al docente che…il cavo volante.
Dario Ianneci